Guarda la foto e scrivi (seconda parte)

Esercizio di scrittura

La prima parte del racconto qui.

I corpi nudi. Gli odori. Dal suo castano e intimo anfratto esalano aromi muschiati e umidi sottoboschi. Non vedo l’ ora di assaggiarli. Mentre le bacio il retro del collo i polpastrelli sono sul basso ventre, le parti delicate dell’ interno coscia, le mia dita accarezzano dove sanno, dove il tattile diventa desiderio e inizio a baciarle il petto. La tentazione di arrivare ai capezzoli è forte e ci provo, sposto il reggiseno infischiandomene della regola numero due. E’ uno sbaglio. Risoluta mi ferma, guardo con la coda dell’ occhio e mi becco uno sguardo fulmineo. Non sto più a pensare al reggiseno e scendo con le labbra attaccate al suo ventre, lingua ruvida che esplora la pelle saporita. Ho la faccia davanti al suo sesso, al taglio di Dio. Voglio esplorare, succhiare, bere il suo umore. Il rosso acceso della sua nuda interiorità è mio. Si inarca, pianta i talloni nel materasso, geme, mette la mano aggrappata tra i miei capelli e stringe forte, guida, mi vuole far fare come vuole lei e assecondo, sono il suo amante e sono qui per questo, non faccio altro, solo amare e far godere la femmina di turno. E’ il suo turno e nella disinvoltura dell’accadere mi viene in bocca fragorosamente. Un buon bagno di umori speziati e la lingua si anestetizza per qualche secondo. Lo sperma femminile mi fa questo effetto a volte e quando accade so che c’è una chimica special, so che ho sulla bocca la fica di una femmina ultra special. Una femmina di caratura internazionale. Sorrido appena, non mi vedo ma so di farlo.

Mi pulisco la bocca con un fazzoletto di carta, due fazzoletti, tre. Non mi curo se non le va, io lo voglio e la bacio e la ribacio. Ci baciamo immensi, intensi. Il suo viso è splendido di un primo orgasmo e acceso di rosso desiderio, le lingue si mischiano elettriche, bagnate, goduriose.

Poi la prendo ripetutamente. Alternato forte e alternato lento. La domino e la muovo a mio piacere. Sento è quello che vuole ed è quello che voglio io. Le mordo forte e piano le carni della nuca. Le aggrappo delicatamente i capelli mentre la penetro a cucchiaio in fianco, da dietro. Poi glieli tiro con forza, la sua criniera di medusa è mia, inebriato nei ricci perdo la testa e  la tengo stretta, il mio respiro contro il suo collo è un ritmo irregolare, quasi un codice. Sento il suo corpo che si tende, non solo per il desiderio e per l’ orgasmo in arrivo  ma per qualcosa di più profondo, più antico, come se stesse cedendo una parte di sé che non aveva mai concesso a nessuno.

Le passo una mano lungo la schiena, lenta, seguendo la curva naturale della colonna vertebrale. Lei si inarca, ma non per offrire: per appartenere. È un gesto diverso, un gesto che riconosco. L’ho visto poche volte nella vita, e ogni volta ha avuto conseguenze.

«Guardami» le dico.
Lo fa. E in quello sguardo c’è un salto nel vuoto. Non è più solo sesso o eccitazione. Non è più solo clandestinità. È un affidarsi totale, quasi pericoloso. Le mie mani la guidano, la sostengono, la leggono. Lei risponde con una fame che non è solo fisica: è emotiva, identitaria, feroce. È come se stesse cercando un posto dove stare, un posto che non ha mai avuto.

«Non farmi pensare» mormora; quasi un ordine, quasi una supplica.
«Non pensare» rispondo, e la mia voce è più bassa del solito, come se stessi parlando dentro la sua gola.

«Fammi gridare» sussurra implorante.

«Allora grida!» le impongo.

Abbiamo fatto sesso, abbiamo fatto all’amore, nudi sul letto. Lascio asciugare il sudore sulla mia pelle, appiccicaticcio e miscela di noi. Prendo due sigarette dal pacchetto sul comodino e le accendo, gliene metto una tra le labbra, lei aspira forte e butta il fumo copioso nell’aria. Fumo anch’ io e ho un colpo di tosse, odo qualcosa nell’aria, mi sento nervoso. Sono io, sono così, finito il sesso senso di vuoto e di piacevole inutilità come un timido narciso.

La stanza è piena di luce filtrata dalla tapparella abbassata, una luce che non perdona: mette in risalto ogni dettaglio, ogni ombra, ogni imperfezione. Eppure è perfetta così. Sento il suo odore, quello vero, quello che non si compra e non si imita. È un odore che dice “sono qui”, che dice “non torno indietro”.

Si volta verso di me e le si incendiano di nuovo le regine negli occhi. Lascia la sigaretta a fumare da sola nel portacenere allora mi prende il viso tra le mani, gesto improvviso, deciso. Mi guarda come se volesse memorizzarmi, come se avesse paura di dimenticare qualcosa di essenziale.
«Non farmi diventare una storia da raccontare» dice piano.

La frase mi colpisce allo stomaco. Non me l’aspettavo. Non così.
«Non sei una storia» rispondo. «Sei un evento.»

Sorride, ma è un sorriso che trema. Poi mi tira a sé forte, come se volesse cancellare la distanza che ancora ci separa, quella invisibile, quella che non si misura in centimetri. Appoggio le mie labbra sulle sue, gli occhi trovano e osservano il ritmo del suo respiro e per un momento tutto si allinea: il silenzio, la musica bassa, la luce, il suo corpo che si tende verso il mio. Non c’è più la strada laterale, né il bar, né le bugie del mattino. C’è solo questo spazio sospeso, questo tempo rubato che sembra più vero del resto.

Lei mi sfiora il petto con le dita, lente, come se stesse cercando un punto preciso, un interruttore nascosto.
«Non farmi cadere» dice.
«Ti tengo» rispondo, e lo dico senza pensarci, senza filtri, senza difese.

E mentre la stringo, capisco che non è solo un incontro clandestino. È un varco. Un passaggio. Una possibilità che non avevo previsto. E forse nemmeno lei.

Il tempo sembra morto, è una cosa che mi accade sempre nello stesso modo dopo il fare l’amore. Non è importante chi sia la donna a fianco, è una cosa che accade sempre, il tempo è morto. Potrebbe scoppiare una guerra termonucleare globale, il tempo non esiste.

Lei rimane distesa accanto a me, il respiro a tratti irregolare, come se il suo corpo stesse cercando di rientrare in sé dopo essere stato altrove. La guardo senza farmi vedere. Ha gli occhi chiusi, ma non dorme. Lo capisco dal modo in cui muove le dita, un gesto minimo, quasi impercettibile, come se stesse tastando l’aria per assicurarsi che io sia ancora lì. Si tocca con le dita la fede nuziale nella mano destra. La sfila e la rimette, sempre nello stesso dito, sempre nella stessa mano.

C’è un momento, un istante sospeso, in cui sento che qualcosa è cambiato. Non tra noi – in lei. Quando riapre gli occhi, non è più la stessa ragazza che ho incontrato stamattina nella strada laterale. C’è una luce diversa, più profonda, più pericolosa. Una luce che conosco bene. Una luce che nella mia vita ha sempre portato conseguenze.

«Non guardarmi così» dice, ma non è un rimprovero. È un avvertimento. O forse una confessione.
«Così come?» chiedo, anche se lo so.
«Come se sapessi già cosa sto pensando.»

La sua voce è bassa, quasi un sussurro. Si tira su, si siede sul bordo del letto, si sistema con un colpo di testa i capelli lunghi mossi e stropicciati, le spalle nude accennate, la schiena lunga, la testa leggermente inclinata. È bellissima in quel modo che fa male. E’ bella da fare male.

«E cosa stai pensando?» dico, senza muovermi.
Lei inspira piano, come se stesse scegliendo le parole con cura chirurgica.
«Che non voglio finisca qui.»

La frase cade nella stanza come un oggetto pesante. Non è un capriccio. Non è un gioco. È una dichiarazione.
«Non è ancora finita» rispondo.
Lei scuote la testa. Non è quello che intendeva, e lo capisco subito.

«Non parlo di oggi» dice. «Parlo di… tutto il resto.»

Si volta verso di me. Gli occhi scuri, lucidi, determinati. C’è una vulnerabilità feroce in quello sguardo, una fame che non ha niente a che fare con il corpo.
«Non voglio essere una parentesi» continua. «Non voglio essere un episodio. Non voglio essere una delle tue storie.»

La parola storie le rimane in bocca come un sapore amaro.
Mi siedo anch’io, lentamente. La distanza tra noi è minima, ma sembra enorme.
«Nessuna donna con cui faccio l’amore è una parentesi» dico.
Lei sorride, ma è un sorriso che non arriva agli occhi.
«Lo so. Ed è questo il problema.»

Si alza in piedi, raccoglie la camicia dal pavimento, la stringe tra le mani senza indossarla. La tiene come si tiene un oggetto che non si vuole lasciare andare.
«Io non sono come le altre» dice. «E tu lo sai.»

La frase non è vanità. È una diagnosi.
«E se ti perdi?» chiedo.
Lei si avvicina, lenta, come se stesse attraversando un confine invisibile. Si inginocchia davanti a me, mi prende di nuovo il viso tra le mani e per un istante vedo tutto: la sua paura, la sua forza, la sua dipendenza nascente, la sua gelosia già pronta a germogliare.

«Mi perdo solo se mi lasci andare» dice.

E lì, in quel momento, capisco che la storia ha preso una direzione che non avevo previsto. Che lei non è solo una donna più giovane, affascinata da un uomo esperto, un amante. È una donna che ama come quando si combatte: senza riserve, senza prudenza, senza rete. E chi ama così può fare male. A sé. A me. A chiunque si avvicini.

Lei appoggia la fronte sulla mia, chiude gli occhi, e sussurra:
«Non farmi diventare cattiva.»

E io sento un brivido lungo la schiena. Non di paura. Di riconoscimento. Di soddisfazione. Perché so esattamente cosa intende. Perché sono uno a cui piace ficcarsi nei guai.

… continua

Tiziano G.

Ogni commento è un dono. Entra e condividi. Grazie

Il tuo indirizzo e-mail non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *