Cinzia Migani: « Tutti i racconti, in coerenza con lo spirito del gruppo e con la linea del corso di formazione impostata dallo scrittore Andrea Pagani, rispondono all’idea del Dono, sono cioè racconti che intendono la scrittura e l’esperienza del racconto (e quindi della vita) come momenti di condivisione, di confronto, di conoscenza di sé e degli altri ».
Estratto dal video: “Dire, Fare, Donare. La cultura del dono nelle comunità in trasformazione”.
Tiziano Gioiellieri legge il racconto originale inserito nel libro: Dire, Fare, Donare:
Buon ascolto e buona visione.
Qui il testo:
1982 In viaggio verso il limite
Mah. La stanchezza è strana. E’ quasi una forma di sballo se si considera lo stress che al fisico porta e, in situazioni particolari diventa sfinente e decisa.
Una forma di sballo.
Finisco di dare lo straccio in cucina. La seconda settimana dopo ferragosto, a Rimini, gli alberghi come quello dove lavoro, due stelle superiore, si svuotano un po’. Sono gli anni 80’, il 1982 e la gente viene come sempre in vacanza. Le fabbriche grosse hanno già riaperto e quindi i ritorni a casa sono già iniziati. Sono quasi le nove di sera. E’ dalle sette della mattina che sono “in frullo”, in cucina, e ne ho decisamente le palle piene.
Vado giù in stanza, doccia e via.
Prendo il mio Fifty e imbocco la strada verso Bellariva. Bar Marte, destinazione Bar Marte che vuol dire roba facile. E’ come al super mercato. C’è tutto e di ogni cosa ne trovi qualunque quantità. Dalle 5-10 mila lire al milione di lire, anche di più.
«Un posto di merda.»
Chissà perché l’ho trovato subito a inizio stagione. Io lo so perché. Perché la roba ha un odore, un’attrazione. La senti ovunque vai. Un po’ perché, è chiaro, la roba c’è dappertutto ma anche perché è proprio così. L’odore della roba è una cosa che non si può spiegare. Non sto mica parlando dell’olfatto, no, ma del fatto che i segnali, per uno che vuole farsi roba sono così evidenti che la trovi ovunque vai. Veramente è così.
Sfreccia il mio Fifty, veloce e rumoroso nel lungomare che porta da Miramare a Bellariva. Diversi chilometri contromano, tra l’altro.
«Massi, cazzo me ne frega. Lo faccio da tre mesi ormai e anche se mi fanno la multa tanto non la pago.»
– E in ogni caso duemila lire fanno poca paura. –
Non penso mai quando vado al bar Marte. Mentre vado al bar Marte. Ci vado in trance. Ci vado per non pensare. Mi faccio prima di farmi. Farsi la roba è così per me. Mi faccio prima con il pensiero. Poi con la spada. Quando decido che mi devo fare non c’è NIENTE e NESSUNO che mi può fermare! La roba è la soluzione, è sempre la soluzione. Non c’è un cazzo da pensare. Mi faccio per smettere di pensare. Pensare non mi piace. Non serve, è inutile. Ho 16 anni e faccio cose che servono A ME. Non a pensare che cosa, altre minchiate e mi sembra come la scuola. Pensare a quelle storie che mi volevano insegnare di cui non mi fregava un cazzo.
«Me le insegno da solo le cose».
Sto bene e vado bene così. Io, da solo, mi vado bene. Al massimo io e la roba. Stiamo bene insieme.
Allora, non penso a nulla ma vedo le cose intorno a me mentre vado a Bellariva. Il lungomare non è veramente un lungomare. E’ la strada subito all’interno. Non c’è il lungomare tra Miramare e Bellariva. Solo a tratti e non mi va di cambiare strada per il panorama. Ho un altro obiettivo. Arrivare e basta.
Una macchina arriva da destra e ormai ci faccio un incidente.
«Oh, idiota! Non vedi che sei contromano» grida un tipo da dentro la macchina. Avrà sui sessant’anni, capelli brizzolati. Potrebbe essere mio padre. Non lo cago nemmeno, gli faccio il dito medio e vado oltre.
Il Fifty vola. All’altezza di Marebello, come sempre, so dove sono, dove sto passando e il pensiero vola, lievemente se no fa troppo male, all’Hotel Elettra, a Lussy.
Ora lei è a casa, a Milano.
E’ doloroso pensarle e ne ho già abbastanza per i cazzi miei del dolore.
«No, stasera non penserò a Lussy».
Arrivo a Bellariva, a sinistra prendo la rotonda verso il distributore di Celli e imbocco il viale verso il bar Marte. Sono le nove e mezza.
Butto il Fifty nella siepe, di lato e cerco subito Manni. Il mio amico Manni è un tipo sburo. Vent’anni, capelli lunghi e ricci. Lavora (si fa per dire) alla darsena di Rimini. Suo padre è un militare della marina, una cosa così. Ci facciamo sempre insieme. Ci dividiamo la roba. Ne prendiamo di solito 30 carte (30000 lire) in due e spezziamo. La roba che ci facciamo io e Manni è buona. Abbiamo i nostri tipi, lui ha le dritte migliori, vive lì e io di lui mi fido. Ma dove c’è l’eroina è meglio non fidarsi.
Comunque lui non c’è. Lo cerco in giro, chiedo a quelli che stanno lì ma nessuno l’ ha visto. Riprendo il Fifty e vado fin dietro l’ospedale. Andiamo sempre là a farci e a volte ci s’ ingubbia o si rimane là a cazzeggiare. Ho pensato: «è là con la sua tipa».
Giada, una ragazza di Bolzano che è venuta al mare per fare la stagione; l’albergo dove lavorava l’ha mollata. Allora si è fermata al mare per l’estate, sopravvivendo d’espedienti, piccoli spacci, furtarelli e cazzatine varie. Cose da poco, giusto per tirare avanti. E’ una gran bella figa. Capelli lunghi biondi e lisci, tosta e decisa. Ci provano tutti. La roba è un ottimo motivo per farsi scopare ma lei non è una stupida e non la da. O forse sì ma a chi pare a lei e ne trae i suoi vantaggi. E sta con Manni.
Non c’è nessuno.
«Vabbè, vado al bar tanto troverò da solo anche se cercare quindici carte di roba è più complicato che cercarne trenta».
Fuori dal bar ci sono un po’ di tossici. E Ciano.
Ciano è un tipo losco. Di Riccione. Mai piaciuto. A volte ha della roba buonissima. Ha un solo difetto; se la fa anche lui. E quando sta per finirla taglia, e come taglia… Diventa merda. Quindi è sempre come giocare un terno al lotto. Lui ovviamente dice sempre di aver roba buona solo che dopo che hai comprato e vai per farti e ti accorgi che la roba è poco buona, torni al bar e lui è sparito. Fino alla sera dopo; solo che i giochi sono fatti. Diverse volte ha preso scapaccioni e calci nelle gambe (quando gli è andata bene) ma lui va a culo.
«Stasera non c’è nessuno che vende, vaffanculo!».
Marzo 2016. L’uomo seduto in penombra alla scrivania, chino sulla tastiera ticchettandovi sopra è la stessa persona. Sono passati giorni, mesi, anni. Sono passati storie, donne, relazioni, due aborti, un figlio, un matrimonio finito.
L’uomo si alza dalla tastiera, seduto, aspira forte e succhia il filtro della sigaretta che sta fumando. Si butta indietro nella spalliera della sedia e fissa lo schermo del pc che rimanda come uno specchio, le parole scritte. Narciso s’innamorò della sua immagine riflessa in uno specchio d’acqua. Può lo schermo di un computer essere uno specchio? Si. Anche tridimensionale a volte. Ci si può guardare anche attraverso. Andare oltre. Trascendere.
Agosto 1982. Sono ancora in cerca della roba. Dell’eroina.
«Voglio farmi, voglio smettere di pensare. Voglio rilassarmi. Voglio staccare. Voglio smettere di soffrire!»
Sto soffrendo la lontananza da casa. Dai miei amici, dalla mia famiglia, da mia madre, padre, dai nonni e forse anche da mio fratello. Sto soffrendo che non c’è Lussy.
E’ tornata a Milano. L’ho conosciuta la sera che la nazionale di calcio divenne campione del mondo in Spagna, l’undici luglio.
Non lo sapevo ma è stata una storia importante. E’ stato il primo vero amore della mia vita. Annessi e connessi. Nell’annesso c’è che mentre lei era in vacanza abbiamo passato dei giorni e delle notti indimenticabili, abbiamo fatto all’amore. Nel connesso c’è il dolore provocato dalla sua partenza, il dolore della sua mancanza.
La mancanza, già, il grande e terribile dolore della mancanza. Il grande, supremo dolore che provoca la mancanza. Ingestibile per me.
Consulto qualche altro tossico fuori dal bar Marte dove sono ritornato. Cerco la roba ma niente, non ce n’è. E sono già le dieci di sera. Allora vado deciso da Ciano. Ha il suo solito aspetto. Lui è di Riccione e si considera un fighetto rispetto ai riminesi. Da quel poco che ne so è di buona famiglia e non gli mancano i soldi per vestirsi alla moda. E’ sempre firmato, dalla testa ai piedi. Un morettino, di pelle molto chiara, occhi scuri. Ha un fare canzonatorio. Non si capisce mai se sia serio o ti stia prendendo in giro. E’ furbo, su questo non ci sono dubbi. Ed è un bastardo, anche su questo non ho dubbi.
«Un gran figlio di puttana».
Gli vado incontro e lo saluto. Gli chiedo se ha della roba. Lui dice quanta ne vuoi. Io gli dico quindici carte. Si mette a ridere e dice che non mi ascolta nemmeno. Io lo prego, lo imploro, gli dico se ne hai dammene un po’, mi devo fare, che ti costa. Se ce l’ hai me la dai, ti do i soldi e siamo a posto. Lui invece se la tira. E’ borioso e gli piace che in quel momento io sia ai suoi piedi. Punto. Gli piace, se la gode.
«Che figlio di puttana »
Marzo 2016. L’uomo è sempre seduto al tavolo del pc. Schermo acceso. Penombra. Aria greve. Senso d’inquietudine. Ripensa a quello che ha appena scritto su quel ragazzo che implorava Ciano di dargli un po’ di roba. Lo scambio era equo. Denaro e merce. Non c’è nulla di strano in fondo. Ma in quel mondo lì, in quell’ambiente lì tutto è distorto.
Il ragazzo implorava il piccolo e merdoso spacciatore. Lo implorava. Un termine forte, implorare. Un termine importante in una relazione. Nella comunicazione c’è un emittente e un ricevente. E quando l’emittente “implora” il ricevente qualcosa non va. No. Non va bene. Stona. I ruoli sono così squilibrati che a ben pensarci può accadere di tutto.
Si può anche uccidere in una relazione di questo tipo. Anche un giovane ragazzino può diventare un assassino in una relazione implorando qualcuno che non soddisfa i suoi bisogni. Perché se lo implora è certo che è disperato. Così disperato al punto di uccidere. E’ certezza.
All’uomo seduto al tavolo si incurvano improvvisamente le spalle, come avesse un peso, un macigno sulla schiena. E’ doloroso rivedere un ragazzo implorare uno stronzetto per quindici mila lire di eroina dopo avere lavorato dodici ore in una cucina di un albergo. Al mare, lontano dai suoi affetti, soprattutto dai suoi amici. Solo. Soprattutto solo dinanzi a un dolore e un’avversità di vita che non conosceva.
Ora l’uomo ha una consapevolezza, pesante. Il ragazzo non era pronto. Non doveva trovarsi lì, non doveva trovarsi lì a implorare il Ciano di turno. Non doveva sentire emozioni che era incapace di gestire. Non ne aveva il fondo, non era ancora stato costruito per quelle cose. Era immaturo. Era piccolo, troppo piccolo. Non era tempo.
Ora è facile attribuire colpe, trovare le cause, fare diagnosi alla luce di come sono andate le cose. Di certo ci sono solo i fatti. Quello che è accaduto.
Le spalle ricurve dell’uomo si ricompongono, sospira e si accende un’altra sigaretta. L’ineluttabilità del destino ha fatto si che il ragazzo fosse lì, che implorava Ciano per quindici mila lire di eroina (che non sapeva nemmeno se fosse buona o fosse porcheria, taglio).
Agosto 1982. Ciano continua a pavoneggiarsi nel suo ruolo di superiore poi come nel più scontato dei copioni decide di accontentare il ragazzo, facendogli (a suo dire) il favore di dargli una bustina di roba.
Ora non c’è altro da aggiungere, nulla per cui proseguire. Lascio a chiunque leggerà la storia del ragazzo, la possibilità di immaginare com’è andata a finire. Il mio intento è lasciare aperte delle domande. Non sarò io a dare risposte.
Astenendomi da ogni forma di giudizio vi lascio questo regalo.
Quel ragazzo è qui, ora, e sta scrivendo queste ultime righe. Con una grande consapevolezza in più, con tanta energia e voglia di vivere, credendo con forza che ogni istante è regalato e merita di essere vissuto. Quel ragazzo ha imparato. Tanto.
Ha imparato che la vita è bella.
Qui ed ora.
Tiziano Gioiellieri